Pubblicato postumo nel 1963, e qui per la prima volta tradotto in italiano, Ehrengard è stato giudicato «la conclusione trionfale» dell’opera della Blixen – e di fatto si potrebbe facilmente includere in un’ideale lista dei racconti perfetti di ogni tempo.
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Riprendendo gesti e scenari del suo primo libro, le Sette storie gotiche, ma immettendoli in un gioco se possibile ancora più affilato, in una occulta matematica delle immagini, la Blixen ci racconta qui la storia della splendida vergine guerriera Ehrengard e del demoniaco pittore Cazotte, che vuole sedurla – ma senza neppure sfiorarla, facendola solo arrossire di complicità (così vuole la sua suprema perversione di artista) –, mentre intorno a loro e attraverso di loro si intreccia una contorta trama dinastica, in un felice, piccolo regno da operetta. Il tema kierkegaardiano della seduzione e dell’estetico si mescola a quello mitologico del «bagno di Diana». Ma la Blixen, sempre ironica e metafisica, ci offre qui una variazione che rovescia tutti i termini come un guanto, svelandoci la seduzione del seduttore e l’inganno di cui è vittima eterna l’ingannatore – e alla fine lasciandoci con una sorpresa abbagliante, quale solo potrebbe mostrarci un grande prestigiatore prima che il sipario lo nasconda. In quella sorpresa è il segreto del libro: un imprevisto rossore, un Alpenglühen, che è quell’insolito irradiarsi di luce sulle cime delle montagne dopo il tramonto: «Dopo di che spariscono, e non si può immaginare nulla di più drammatico: hanno tradito la loro più intima essenza e ormai non possono che annientarsi». Scritto in una prodigiosa estate di San Martino dalla Blixen vecchia e malata, sulla soglia della morte, questo racconto può essere visto come l’Alpenglühen della sua opera.